lucciole

A casa di nonno Domenico spesso si faceva tardi.

La notte in quei giorni di giugno arrivava silenziosa, ce ne accorgevamo solo uscendo di casa.

Fuori, le scale erano appena illuminate da quell’unica lampadina da 15W appesa all’angolo del muro.

L’aria d’inizio estate era piacevole e il fiume sotto suonava la sua melodia di sempre.

Sopra, il cielo di vetro blu scuro era pieno di stelle di tutti i tipi: alcune grandi e lucenti, altre sfarfallanti, tante piccole come polvere di zucchero a velo, talune sembravano muoversi, mentre altre a tratti sparivano, come giocassero a non farsi vedere.

A volte avevo provato ad esplorare quell’immensità oscura, coricandomi sull’erba a faccia in su. Allora venivo velocemente risucchiato in alto alla ricerca di stelle sempre più piccole e lontane e il mio spirito libero sembrava volare alla velocità della luce verso altri mondi, ma potevo reggere il volo per poco, perché presto un senso di vertigine e di smarrimento mi costringeva a tornare giù nel mio corpo e così mi sentivo piccolo, piccolo, un puntino, sotto il peso leggero di tutto quell’universo.

Ho pensato a volte che se avessi resistito, avrei potuto staccarmi dal corpo e viaggiare per l’eternità nel cielo, forse è questo che succede quando si muore?

In città non c’erano tutte quelle stelle.

Seguendo l’antico sentiero accanto alla “calcara” ed al vecchio mulino ad acqua, calpestando le orme di migliaia di altri passi di altrettanti uomini e animali che per secoli lo avevano tracciato, la temperatura si faceva più fresca e quando arrivavamo a costeggiare il bosco di lauri, che orgogliosi e rigogliosi affondavano le loro antiche radici nell’acqua fredda del ruscello, che scrosciando si precipitava nel fiume, le lucciole a migliaia gareggiavano con le stelle del cielo, quasi ne fossero il riflesso sul quel lembo di Terra, che i frati Benedettini molti secoli prima avevano scelto per costruirvi il monastero di Fonte Laurato.

Erano così numerose, che si poteva spegnere la piccola torcia a pila e le potevi prendere nelle mani, la loro luce fredda sembrava una magia.

“Non l’ammazzare” diceva il nonno “è peccato”.

Nel bosco s’intravedevano alla loro luce i rivoli spumeggianti dell’acqua, che correvano per il dirupo, e il buio faceva meno paura.

Voltando la faccia dalla parte opposta ti investiva una ventata di aria più calda, che saliva dai campi ancora tiepidi di sole, e le narici si inondavano di quell’aria che odorava di fieno, mentuccia, origano e mille altre essenze, che l’umidità della sera, evaporando sulle foglie calde, rendeva particolarmente intense e profumate.

Di là le lucciole erano poche, però si vedevano lontane e sparse le poche luci elettriche sulle scale delle case, al di là del fiume sul costone opposto della valle.

Ogni tanto, rombante lungo la strada, un’“ape” o una “vespa” alla luce dell’unico fanale portava a casa qualcuno, che si era attardato a giocare a carte al bar vicino il monastero.

Scendevamo in silenzio o parlando piano, si sentivano i nostri passi sul sentiero e ogni minimo rumore, il volo di qualche uccello notturno o il fruscio di qualche animale nel sottobosco, faceva scattare le mie orecchie.

La sensazione era di pace e serenità, eppure la valle era completamente riempita dal suono delle acque, che da più parti confluivano nella melodia echeggiante del fiume.

Questo sottofondo era così naturale che potevo sentire il mio respiro e il battito del mio cuore, a volte però mi concentravo proprio sui suoni delle acque e allora potevo distinguere quello sibilante ed altalenante della parte superiore del fiume che arrivava dal canalone in alto verso la montagna, oppure quello scrosciante del ruscello o addirittura quello più ovattato del fiume verso il mare in fondo alla valle,  o, alzando la testa, quello pesante, caldo e rimbombante, che tornava sopra di noi rimbalzando sui costoni della “Timpa”.

Passando sul ponticello di legno sopra il fiume, si intuiva sotto l’acqua scura e veloce, così da vicino in fondo non faceva poi tanto baccano, anzi sembrava silenziosa.

Al di là del ponte, nel piccolo slargo alla fine della strada carrozzabile, il catarifrangente della “millecento” faceva l’occhiolino alla torcia e di colpo si tornava alla realtà.

luccioleultima modifica: 2017-02-25T19:28:16+01:00da domenico_barone6